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Franco Prina: Le ragioni sociologiche e socio giuridiche dei progetti di cambiamento della giustizia minorile (15.3.02)

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Sulla vicenda che ci appassiona e preoccupa si possono sviluppare molte considerazioni che naturalmente discendono dai differenti approcci e dalle differenti culture proprie di chi tali considerazioni svolge: così un giurista potrà evidenziare le tante possibili critiche di merito ai disegni di legge, adottando la prospettiva tecnico-giuridica, mentre un operatore sociale potrà ricordare i bisogni che verranno meno tutelati o le difficoltà organizzative che si potranno determinare nei contesti istituzionali che hanno responsabilità in materia.

Il mio contributo si colloca su un piano diverso, non contrapposto, bensì integrativo dei precedenti, ponendosi su due livelli più generali, peraltro strettamente intrecciati: - quello dell’analisi delle caratteristiche “essenziali” del mutamento della norma giuridica, utilizzando un approccio sociologico-giuridico, lo sguardo disciplinare che si sforza di interpretare i fattori (quali la cultura, i valori, gli interessi) all’origine della produzione normativa, di descrivere le modalità e gli esiti del confronto parlamentare, di definire le conseguenze che la norma approvata potrà determinare, infine di valutarne l’effettività e l’efficacia; - quello dell’analisi di carattere sociologico e socio-politico, che cerca di collocare le trasformazioni proposte nel contesto delle tendenze di fondo, prevalentemente di ordine culturale, della società, per mettere in luce se ed in che modo il sistema politico coglie, riflette oppure alimenta e rafforza alcune di quelle tendenze. E’ mio parere d’altra parte che solo un livello di analisi altamente articolato e attento alla complessità della posta in gioco possa aiutare non solo a definire meglio i termini della questione, ma soprattutto ad individuare il miglior modo per contrastarne l’esito (pur se apparentemente scontato, come dirò più avanti). Non siamo di fronte infatti a mera “ignoranza” – culturale e/o tecnica – da correggere con adeguata opera pedagogica, né tantomeno ad una scarsa conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei Tribunali per i minorenni (per cui, ad esempio, il Ministro non sa quanto utili e “bravi” siano i giudici onorari), da superare con dati alla mano e opportune spiegazioni. Proviamo quindi a mettere insieme i tasselli di un quadro di valutazioni articolato, ma anche a richiamare le molte e diverse responsabilità (diffuse e non solo concentrate nelle posizioni del Governo) e i forti interessi in gioco. Anche per questo, esplicitando la prospettiva da cui mi colloco, aggiungo che quanto segue non è solo espressione di un’analisi asettica, “neutra” (qualcuno direbbe “scientifica”) delle cose, poiché traspariranno con evidenza le scelte di campo e di conseguenza gli oggetti polemici che credo necessario individuare per continuare a difendere con coerenza principi e ideali su cui la giustizia minorile ha costruito, in Italia e non solo, la sua lunga, civile e appassionante storia. 1. Come da più parti è stato osservato, l’impostazione della questione, quale ci è stata consegnata dai disegni di legge del Governo, rappresenta innanzitutto un esempio illuminante di una concezione dell’iniziativa legislativa come risposta a rappresentazioni semplicistiche di problemi complessi, con l’evidente obiettivo di creare o incrementare il consenso nel mercato politico. E’ una concezione che di solito genera leggi “pasticciate”, contraddittorie rispetto ad altre norme, inapplicabili, tutte caratteristiche proprie delle cosiddette “leggi manifesto” o leggi simboliche. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che tali leggi non abbiano conseguenze reali. In primo luogo, il solo fatto di approvarle consente l’utilizzo propagandistico che è all’origine dell’interesse a promulgarle. Tale utilizzo, e i risultati in termini di consenso che ne derivano, è tanto più agevole quanto più la norma è confezionata in modo semplice, diretto, ed appare rimuovere gli ostacoli indicati come responsabili delle storture denunciate attraverso la riduzione delle rappresentazioni mediatiche. In secondo luogo, l’approvazione di leggi siffatte può rappresentare un tassello di un più complesso disegno di tattica politica, indipendente dal contenuto specifico dei provvedimenti: verificare la tenuta della maggioranza, mostrare le divisioni nell’opposizione, mettere in campo un elemento che consenta “scambi” su altre materie o altri provvedimenti, garantire a interessi forti risposta ad alcune delle molte istanze che presentano, ecc. Ma le leggi simboliche, hanno conseguenze anche su piani più concretamente operativi, pur in un senso particolare. Si può dire che hanno una effettività, anche se non una efficacia rispetto allo scopo dichiarato. Non bisogna infatti dimenticare che molte leggi simboliche sono tali in genere perché, mentre indicano con chiarezza quali elementi del sistema normativo in vigore sono da modificare o abrogare e quali diversi e mirabolanti obiettivi si potranno raggiungere con la riforma approntata, restano del tutto sul vago quanto ai mezzi per pervenirvi. Il risultato certo (e le molte analisi “tecniche” svolte in questi giorni, riferite alle conseguenze delle norme che si vorrebbero introdurre, lo hanno sottolineato con chiarezza) è dunque di un successo concreto della legge, se si ha riferimento a quella che si può definire la “pars destruens” dell’intervento legislativo, ossia all’abbattimento di parti del sistema precedente ritenuto inaccettabile. Ma sul versante costruttivo la conseguenza sarà di paralizzarne o renderne inefficace l’operatività, senza che peraltro una nuova e diversa strutturazione delle risposte alle esigenze evidenziate possa avere corso, se non del tutto parzialmente e selettivamente (con riferimento cioè agli interessi più forti che nell’agone politico si sono confrontati e scontrati). 2. E di interessi si deve parlare, poiché in questa come in moltissime altre questioni trattate attraverso lo strumento del diritto, sotto l’apparente scontro di principi e di valori, è agevole scorgere la trama degli interessi che sono in gioco. La soluzione legislativa raggiungibile dipenderà infatti essenzialmente dai rapporti di forza che si determineranno tra i diversi e contrapposti interessi (alcuni dei quali del tutto palesi, altri più occulti). Ora, è del tutto evidente che la vicenda della giustizia minorile si inserisce, con le sue specificità, nel quadro della più generale ridefinizione dei rapporti di potere che toccano il sistema giustizia, ridefinizione che ha nel riequilibrio dei rapporti tra magistratura e parti in giudizio (quando dotate di potere) il nodo più evidente, ma che tocca anche aspetti meno appariscenti. Nel caso specifico poi, dietro le posizioni che – in materia civile – invocano il pieno rispetto di principi misconosciuti, in primis quello del contraddittorio e della terzietà del giudice, non si può non riconoscere la trama di corposi interessi. Come altri evidenti interessi traspaiono dietro ai silenzi “assordanti” che circondano l’abolizione della presenza dei giudici onorari e la dilatazione del ricorso alle consulenze tecniche. A chi ritiene che vada riconosciuta la fondatezza di quei richiami di principio e di quelle posizioni (per una esigenza non si sa se di fairplay tra categorie contigue o per trovare spazi di mediazione), va forse ricordato quali potranno essere le conseguenze per i minori della perdita di quello che, pur con tutte le ambiguità del caso, è continuato ad essere il ruolo preminente del giudice minorile: non giudice rigorosamente “terzo” tra due interessi di uguale “peso”, che con opportuni correttivi potrebbero essere ugualmente rappresentati, bensì difensore dei diritti dei bambini e dei ragazzi. Di fronte poi al non infrequente richiamo alla tutela per i più deboli e i più poveri (non a caso il “materiale umano” su cui si costruiscono i processi ai giudici e agli operatori sociali nei salotti televisivi, peraltro frequentati da personaggi dello show business che, discutendo delle disgrazie altrui, incassano gettoni milionari), che si vorrebbero non sufficientemente garantiti dall’assenza di contraddittorio o dalla presenza di giudici portatori di sensibilità altre, va forse semplicemente ricordato quanto avviene nella giustizia penale degli adulti, dove la terzietà del giudice e l’assenza di interferenze di altri saperi è piena. Vanno cioè ricordati l’abisso che separa (con rarissime eccezioni) le difese di fiducia dalle difese d’ufficio, le innumerevoli ricerche (condotte in tutti i paesi del mondo) sulla giustizia diseguale, le differenti potenzialità di resistenza in giudizio (verrebbe da dire… fino alla prescrizione dei reati) a seconda delle risorse economiche e del “capitale sociale” che i diversi individui posseggono in virtù della loro collocazione sociale. Va forse ancora ricordato che i diritti dei “potenti” (quando debbono regolare le loro questioni private) già ora sono abbondantemente tutelati, mentre quelli dei “deboli”, ossia dei protagonisti della stragrande maggioranza delle situazioni che sono trattate dai tribunali per i minorenni, non saranno maggiormente difese (come la certezza di un avvocato d’ufficio per un imputato senza risorse soprattutto relazionali e culturali – si pensi agli stranieri – non lo rende meno vulnerabile di fronte alla giustizia penale). Si abbia allora il coraggio di gridare “il re è nudo” e si denunci la retorica di quanti in questa vicenda utilizzano riferimenti a principi e valori per nascondere i propri interessi, certi di trovare in un governo occupato in senso generale a ridimensionare le prerogative dei giudici, orecchie attente anche in materie apparentemente lontane da quelle che di quel governo hanno generato la stessa ragione costitutiva. E forse si potranno così meglio e maggiormente valorizzare le posizioni di chi, dall’interno delle corporazioni più “interessate”, ha espresso posizioni critiche, più vicine alle nostre preoccupazioni. 3. Ma la riflessione sugli interessi non spiega da sola il senso profondo del processo di rivisitazione del ruolo e delle funzioni della giustizia minorile, nonché della sua organizzazione. Come alcuni hanno osservato, le riforme auspicate si collocano nell’alveo di tendenze culturali diffuse e per questo sono molto difficili da contrastare. Certo si può ritenere che dietro alla concezione privatistica della famiglia e all’idea “proprietaria” dei figli vi siano le richieste di evitare ingerenze indebite ed errori di valutazione che il Ministro dice di aver recepito dai suoi elettori, per non pensare ai vaneggiamenti sulla “sana famiglia padana” che la forza politica cui il Ministro appartiene ritiene debba essere difesa dagli attacchi che ad essa porta la sinistra “comunista”, di cui i giudici sono la longa manus. Non vi è solo questo e sarebbe un errore non vedervi tendenze più ampie, riflesso di umori e sentimenti presenti in ampi strati della società. Di questi umori e sentimenti i due disegni di legge, quello sulle competenze civili e quello che ridisegna in parte la risposta penale, sono interpreti coerenti e tra di essi interconnessi. Essi si legano – mi sembra di percepire – nel mettere al centro dell’attenzione l’interesse dell’adulto e i suoi bisogni di gratificazione e di realizzazione, e nel cercare i mezzi per respingere tutto quanto si frappone a questo interesse, limitando la sua libertà e/o disturbandolo. Da un lato, si vuole che nessuno osservi, controlli o contrasti l’interesse dell’adulto a fare dei figli l’oggetto della propria realizzazione, a dare ad essi l’impronta che egli desidera (sognando magari per loro un futuro di calciatori o di “veline”), gratificando se stesso con la messa a loro disposizione di tutto quanto il mercato propone, evitando per tranquillità qualunque no sempre costoso e potenziale fonte di conflitto, trascurandoli quando è occupato in altre cose. Ma soprattutto si vuole che nessuno osservi, controlli o contrasti un adulto che sempre più spesso piega i figli ai propri interessi, ai propri capricci quando non al proprio piacere o alle proprie perversioni. Se si realizza il disegno prefigurato nei progetti di riforma, di tutto questo si potranno cogliere solamente flebili indizi cui, allorquando un bambino esprimerà il proprio disagio e il proprio malessere, non farà seguito alcuna seria azione di tutela. Se di famiglia “perbene” il bambino sarà facilmente messo in condizione di dover nascondere i segnali della sua sofferenza, di fronte alla difficoltà degli esami incrociati di legali e consulenti di tutte le parti, che potranno facilmente dimostrarne la fragilità e farlo sentire in colpa per aver turbato gli equilibri del sistema di cui è appendice. Se di famiglia “disgraziata” semplicemente non avrà modo di farsi sentire e nessuno se ne occuperà più seriamente, poiché servizi e risorse di diagnosi saranno sempre meno presenti sul territorio e non avranno più dai tribunali il mandato di approfondire le situazioni, le consulenze tecniche saranno fatte con attenzione ai vincoli economici, ed anche i giudici non togati portatori di conoscenze specialistiche non saranno più lì a cercare di afferrare i bandoli di matasse spesso molto aggrovigliate. Anzi, così si potrà anche realizzare un bel risparmio per le finanze pubbliche, una volta finita la storia di Tribunali che, certo del tutto impropriamente, fuori della logica di un rigoroso approccio giurisdizionale e della loro auspicata asettica terzietà, fungono da mezzo per attivare servizi e prese in carico che senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria molti enti locali, consorzi, ASL, per ragioni economiche, non garantiscono. 4. D’altro lato, la stessa esclusiva attenzione agli interessi dell’adulto si manifesta nelle proposte sul versante penale. Molti hanno giustamente osservato che nulla di sconvolgente è successo in Italia, negli ultimi anni, nelle manifestazioni della delinquenza minorile, che dunque l’allarme è – cifre alla mano – del tutto ingiustificato. Non si è tuttavia sufficientemente sottolineato che è cambiato molto sotto il profilo qualitativo, sotto il profilo cioè delle caratteristiche e delle forme in cui si manifesta la devianza dei giovani e dei giovanissimi: cresciuti alla logica del tutto subito, privati di relazioni significative e di confini normativi, abituati ad essere titolari solo di diritti e mai di doveri, istruiti all’imperativo del farsi strada a qualunque costo, giovani e giovanissimi (italiani) si rendono sempre più protagonisti di comportamenti che, se letti attentamente, fanno trasparire il loro essere essenzialmente espressione di una difficoltà comunicativa e relazionale, il loro essere cioè messaggi urlati con i mezzi dell’“agire contro”. Al pari non si è sufficientemente sottolineato che è cambiato il modo di leggere tali manifestazioni da parte degli adulti, si è ridotta la loro capacità di darvi un senso, è venuta meno la loro fiducia nella possibilità di fare qualcosa (come genitori o semplicemente come adulti responsabili di fronte alle nuove generazioni). Adulti centrati sui propri interessi e sulla propria gratificazione, sempre più spaventati o comunque meno disposti ad accettare di mettersi in discussione, di lasciarsi disturbare e coinvolgere, non possono che vedere con sollievo proposte che tendano a spostare all’infuori della famiglia la gestione di figli che cominciano a dare problemi. Ecco allora il fondamento delle proposte normative di ridefinizione del penale minorile che, al di là delle modalità tecniche, è essenzialmente ridefinizione del rapporto tra società degli adulti e minori che compiono errori, che si vuole fondato sulla gestione separata, in istituzioni nuovamente chiamate a esercitare funzioni di controllo e neutralizzazione (senza più neppure la retorica della rieducazione) di chi sbaglia. Di fronte agli stessi bambini, prima esibiti e coltivati a propria immagine, che giunti alla fase adolescenziale (e sempre più spesso pre-adolescenziale, diciamo intorno ai 12 anni…) si esprimono con atti e comportamenti devianti, ancorché a ben vedere spesso coerenti con quanto è stato oggetto della loro socializzazione, gli adulti in crisi, incapaci di capire e orientarsi, la cui tranquillità e i cui interessi sono turbati, potranno contare su un intervento risolutivo dall’esterno, autoritario, capace di punire, ma soprattutto di rimuovere. Non è un caso che si torni a privilegiare lo strumento del carcere, cui attribuire una funzione di separazione dei portatori di problemi e di incapacitazione, ossia di difesa sociale. Funzione che già oggi esso assolve ampiamente per quei minori che una famiglia non hanno, quelli che sono qui a disturbare l’ordinata vita delle nostre città e dei nostri paesi commettendo reati (non importa se sono tipici reati “di servizio”, ossia compiuti per rispondere a una domanda di integerrimi giovani nostrani, come è il caso dello spaccio al dettaglio). Per essi – in barba a tutte le Convenzioni e le parole sui diritti dei minori – l’unica cosa seria è tenerli un po’ in carcere in attesa di riportarli da dove sono venuti. La coerenza tra le due vicende appare dunque evidente se si pensa che la proposta sulle competenze civili e quella sul penale esprimono due ordini di rimozioni funzionali ad un adulto che pone al centro dell’interesse se stesso e non il bene dei minori: la rimozione degli sguardi di altri sui meccanismi di funzionamento della famiglia, da un lato; la rimozione dei problemi che “disturbano” la stessa famiglia, dall’altro. Ed in questo, in fondo, sta la logica dell’allontanamento dei giudici onorari: schiacciati sull’immagine di soggetti “intrusivi” nel civile, “perdonisti” nel penale, rappresentano l’anomalia che, se mantenuta all’interno del sistema, potrebbe far ancora una volta inceppare l’oliato funzionamento di una giustizia ridotta a strumento di tutela degli interessi più forti. 5. In tutto ciò vi sono però delle responsabilità che vanno oltre il Ministro, lo stesso Governo e la sua maggioranza. Intanto quelle descritte sono tendenze culturali profonde difficili da contrastare con le armi della parola e dello scritto, dell’educazione e della formazione, armi infinitamente meno potenti di quelle che tali tendenze coltivano e alimentano. E poi bisogna avere il coraggio di dire che anche negli ambienti culturali e nelle parti politiche che oggi giustamente si scandalizzano della rozzezza e della brutalità con cui queste tendenze si traducono in proposte o in atti legislativi, vi sono e vi sono state in questi anni assenze vistose, silenzi, ritardi, ambiguità. Si pensi al fatto che il Governo e il Parlamento, nella passata legislatura, non hanno posto mano a quella riforma (l’accorpamento delle competenze civili) che oggi tutti dicono essere irrinunciabile. Si pensi al vuoto assoluto di riflessioni (da parte del Parlamento, del Ministero della giustizia e in specifico della direzione addetta ai problemi dei minori) su come affrontare i cambiamenti nelle caratteristiche della delinquenza minorile e come rimodellare la risposta penale (per tacere della opposizione assoluta a proposte come quelle elaborate proprio qui a Torino nella commissione presieduta da Paolo Vercellone). Si pensi più in generale, a come anche la sinistra in Italia al pari di quella di molti altri paesi, abbia aderito alla tendenza – per usare le parole di L. Wacquant – “a ridefinire il perimetro e le modalità di azione dello Stato, in un senso restrittivo sul piano economico e sociale, ed espansivo in materia di polizia e penale”, mossa dalla preoccupazione “di convincere l’elettorato che sarà più decisa e spietata degli avversari nel perseguire la carcerazione dei criminali”. Si pensi al sempre più accentuato disinteresse di molte amministrazioni locali governate dal centrosinistra per le questioni che noi trattiamo quotidianamente, per le politiche sociali e per la qualificazione, attraverso opportuni investimenti, dei servizi alle persone più deboli, altre essendo le priorità su cui investire perché elettoralmente più paganti (un esempio a caso, le Olimpiadi…). Si pensi al silenzio magari imbarazzato su questi temi, di molta parte del volontariato e del terzo settore, sempre più stretto in un ruolo meramente gestionale e sempre più costretto a non manifestare dissenso, pena la messa in discussione della presenza di molti servizi gestiti in convenzione o sovvenzionati col denaro pubblico. Si pensi infine a come la stessa magistratura minorile abbia, in tempi recenti, accettato senza grande discussione e senza lo sviluppo di un’analisi rigorosa, il mandato sociale di essere strumento di rimozione delle parti più problematiche delle dinamiche sociali, quelle che si manifestano nei “delitti dei deboli”. Così la stessa magistratura sembra aderire al diffuso senso comune penale quando dispone misure cautelari o giudica avendo attenzione ai “fenomeni” ed alle categorie (gli stranieri, i nomadi,…) più che alle singole persone, quando accetta con sempre più evidente rassegnazione che vi sia ormai un doppio e diseguale processo (agli italiani e agli altri), quando tollera che la sua funzione sia quella di rispondere alle preoccupazioni sociali figlie delle carenze di politiche sociali, quando si disinteressa di come funziona oggi un carcere minorile (pardon, Istituto penale minorile!) sempre più chiuso su se stesso e sull’ordine custodialistico che ne garantisce l’esistenza ordinata e la funzione incapacitante. Si tratta di un’analisi forse ingenerosa, certo schematica, molte essendo le sfumature e le differenze nei diversi contesti e tra le persone che interpretano specifici ruoli. E’ tuttavia un punto di riflessione autocritica a mio avviso irrinunciabile. Al di là della battaglia contingente che tutto lascia pensare verrà persa (dato quello che potremmo definire il combinato disposto di ricerca di consenso, interessi di corporazioni forti, clima culturale diffuso, compattezza della maggioranza, ecc.), essa investe infatti le prospettive di senso che si intendono dare alla cultura che vuole continuare a difendere gli interessi, i diritti, la dignità dei minori, in qualunque parte del mondo vivano e da qualunque contesto provengano.